Petizione popolare per lo Scioglimento del Consiglio Regionale della Calabria

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28 febbraio 2008


La riforma normativa dei modelli di protezione di chi collabora con lo Stato viene auspicata dalla Commissione parlamentare antimafia
Un "tutor" per i testimoni di giustizia che vigili sull'attuazione dei programmi di sicurezza. In calo sono anche i pentiti di mafia

Teresa Munari
ROMA
Ultima apparizione pubblica ieri a Palazzo San Macuto per la Commissione parlamentare antimafia. Ma questa volta, a rappresentare il lavoro svolto nella XV legislatura, è stata l'on. Angela Napoli che, al fianco del presidente Francesco Forgione e del vice presidente Giuseppe Lumia, ha reso noti i risultati cui è pervenuto il Comitato da lei presieduto ed impegnato con i "testimoni di giustizia". Nel cedere il passo al Parlamento che verrà, la Commissione uscente auspica un modello nuovo per la protezione dei testimoni di giustizia che metta in atto «un cambiamento radicale nella gestione» dei collaboratori, e su un altro fronte invita a non demordere di fronte alla «difficoltà delle indagini patrimoniali», ganglio vitale negli accertamenti delle attività illecite e per questo rese più difficili dal sistema bancario italiano, consapevole che dietro alle movimentazioni sospette di tipo economico o finanziario, spesso si celano persone «incensurate o colletti bianchi che svolgono il lavoro di riciclaggio dei profitti illeciti della malavita organizzata».
Un discorso a tutto campo, ma che per esempio, nell'approfondire la situazione sui testimoni di giustizia, ha evidenziato un fenomeno in calo (nel 2002 erano 79) mentre ora gli ammessi al programma speciale sono 67, ma solo 18 hanno riferito sulla 'ndrangheta e ancora meno (nove) sono stati i testimoni disponibili ad assicurare alla giustizia i picciotti della mafia. «Un sostegno vitale per il sistema giudiziario, ma che langue perchè ha bisogno di maggiore assistenza e garanzie», ha detto la Napoli, che ha subito spiegato la differenza morale e civile che c'è fra i collaboratori di giustizia (delinquenti pentiti) e i testimoni, persone per bene che decidono di non soccombere al giogo della malavita organizzata.
«C'è bisogno di una riforma normativa, di un nuovo modello di protezione – ha spiegato il deputato di An – perché così come vanno le cose, i testimoni di giustizia non si sentono completamente garantiti dallo Stato, e allora diventa sempre più difficile scegliere di abbandonare tutto per riparare altrove cambiando nome, attività, abitudini». Su queste basi la Commissione ha elaborato una serie di proposte a partire «da un quadro informativo ampio e dettagliato sui diritti e i doveri connessi al loro nuovo status e dall'effettivo mantenimento del pregresso tenore di vita», fino ad assicurarsi la sinergia con una équipe multidisciplinare di professionisti e tecnici, in grado di valutare le singole situazioni per fornire le opportune soluzioni sul piano psicologico, sanitario, patrimoniale, lavorativo».
La Commissione ha assolutamente condiviso la tesi che è importante «assicurare il reinserimento lavorativo, prevedere benefici fiscali per quanti intendono avviare o trasferire la propria attività imprenditoriale, prevedere la possibilità di acquisizione da parte dello Stato di beni immobili di proprietà del testimone per perequare il loro valore nei contesti urbani dove essi trovano riparo».
«Un programma complesso che non può avere come interlocutore l'elefantiaca ed asettica amministrazione pubblica ma che deve essere riconducibile – ha detto la Napoli – alla responsabilità di un "Comitato di garanzia per l'espletamento del programma di protezione dei testimoni di giustizia", che attraverso la figura di un "tutor" e di un corpo specializzato, i nuovi "Nop", assicurino la giusta assistenza a chi decide di abbracciare questa missione".
Obiettivo della Commissione è quello di essere riusciti a coadiuvare con queste indicazioni l'applicazione della legge del 2001, in attesa che nuove norme migliorative compiano l'iter legislativo, allo stesso modo, secondo Forgione, il nuovo Parlamento potrà ripartire da dove si sono fermati loro per far sì di non vanificare l'attività di inchiesta svolta fin qui e bruscamente interrotta dallo scioglimento delle Camere.
Con l'occasione è stata data alla stampa anche la relazione conclusiva e riassuntiva di questi dodici mesi di lavoro compresi fra il 13 gennaio 2007 al 20 febbraio scorso. Nella Relazione conclusiva si legge che in Sicilia, Calabria e Campania emerge «in modo drammatico la condizione di un'imprenditoria che spesso convive - silente o vittima, collusa o intimidita - con il potere pervasivo delle mafie che distorce il mercato e schiaccia la libera impresa e la libera concorrenza, fino a porre un problema di sospensione dei valori di democrazia e di liberta».
Ma Forgione ha aggiunto: «La questione, ovviamente, non riguarda soltanto le aree del Mezzogiorno ma tocca complessivamente la trasparenzadel sistema economico del Paese. La criminalità organizzata è ormai essa stessa economia: con le risorse finanziarie accumulate illecitamente, opera con gli strumenti e la mentalità di un'impresa, e dove è fortemente radicata si crea un'economia parallela che attrae risorse umane e finanziarie e le sottrae all'economia legale impedendone lo sviluppo».
Quello dei money transfer – ha ricordato Forgione – si propone sempre più come "un sistema bancario alternativo che rischia di mettere in crisi anche quello legale, essendo stati identificati circa 25 mila punti di raccolta di denaro presenti in Italia, dei quali si stima che il 30 per cento - circa 8 mila - siano illegali».
Il presidente dell'Antimafia ha anche rivendicato il primato di audizioni come quelle fatte a Draghi, presidente della Banca d'Italia e a Montezemolo, «prima volta in cui un rappresentante della Confindustria ha ricevuto domande dirette dalle quali era impossibile esimersi. Ma tutto questo lavoro sarà stato inutile – ha concluso Forgione – se non si innoveranno le regole con le quali lo Stato può monitorare e controllare il territorio: per questo è urgente innovare le norme sullo scioglimento dei comuni infiltrati dalla mafia, perché proprio questo lavoro d'inchiesta ci ha convinti che per bonificare l'area condizionata dalla malavita non basta rimandare alle urne i politici, ma bisogna azzerare anche la classe burocratica».